74 anni di storia, mito, leggenda. Tanti, ma sempre pochi, per uno che ha trasformato il modo di vivere lo sport. A 74 anni se n’è andato The Greatest, il Più Grande, Cassius Clay, alias, pardon, Muhammad Alì: il campione che più di ogni altro è stato l’icona, sportiva e non solo, di un intero secolo chiamato Novecento.
Fino alle ultime ore, le più complicate: quelle in cui il morbo di Parkinson che da tempo lo affliggeva ha fatto il suo, mescolandosi alle complicazioni respiratorie e portandolo alla morte, Alì è stato il semidio dello sport
Dal ring al mondo: Alì ha cambiato il modo di concepire la boxe (sguardo e gancio, sguardo e uppercut, sguardo e tutto il repertorio) e ha cambiato pure il modo di stare al mondo, influenzando a volte le scelte di tantissimi uomini nella vita di tutti i giorni.
L’Immagine, la foto forse più famosa dello sport di sempre, è quella lì: il k.o. che Alì inflisse a Sonny Linston. Lewinston, 25 maggio 1965, rivincita del Mondiale dei massimi: un’era sportivo-geologica fa, quella immortalata nel pugno fantasma di cinquant’anni fa.
Il pugile vincitore che in un ghigno (in un gesto plastico) mostra la sua grinta fiera di vincitore, rispettando fino in fondo lo spirito della boxe, lo spirito della lotta: lo spirito della vita che è sempre combattimento, alzarsi, prenderle e cadere, rialzarsi e ricominciare a picchiare.
Alì era questo: un Combattente nel vero senso della parola. Lo fu ancor di più al Mondiale dei massimi del 30 ottobre ’74, quando a Kinshasa oltre 60mila zairesi inneggiarono al nome di colui che si dichiarava convinto erede degli schiavi africani e che sbeffeggiò l’ex campione George Foreman prendendosi gioco dei suoi pugni chiamandole “carezze”.
In principio fu Cassius Clay, poi arrivò Muhammad Alì: quello che fece capire di essersi convertito all’Islam solo dopo la vittoria della corona su Sonny Liston.
Alì che abbraccio la religione del Corano dopo l’incontro con i Musulmani Neri in una moschea delle Nazioni dell’Islam a New York (a 22 anni): dichiarando «La gente pensa che siamo un gruppo che fomenta l’odio, che vogliamo metterci contro il nostro Paese. Niente di più sbagliato. I seguaci di Allah sono le persone più dolci della terra. Non portano armi e pregano cinque volte al giorno. Tutto quello che vogliono è la Pace».
Alì che si beccò una condanna a cinque di anni di carcere il 25 giugno del ’67 e la revoca del titolo di campione mondiale per il suo pacifismo sbandierato a destra e manca nell’America belligerante e guerrafondaia degli anni Sessanta. Quella del Vietnam, per capirci. Leader dei diritti civili, fautore della Pace cui si ispirava sempre con l’Islam nel cuore e una potenza micidiale nei guantoni.
Una delle centinaia di frasi celebri – «La mia coscienza non mi permette di sparare a mio fratello o a qualsiasi altra persona, o a gente povera o affamata» – dà la cifra di quel che è stata la grandezza dell’uomo e del mito Alì
Un destino beffardo, per The Greatest: finito irretito nella tenaglia di un morbo di Parkinson che lo attanagliava da qualche anno. Lui, che «volava come una farfalla e pungeva come un’ape», si è chiuso in un bozzolo implacabile che l’ha portato muto e immobile all’ultima stazione.
Da lì l’ultimo treno. Ma Muhammad Alì ha giurato che non sarà stato l’ultimo preso; la leggenda ha già preso il volo da un po’ di tempo, s’aggira sulla storia come una farfalla e punge, e pungerà ancora, come un’ape.