Un solo successo di tappa, per giunta arrivato dopo due terzi di corsa, e il più basso gradino del podio. Il Giro 100 si è rivelato tragico per i colori azzurri: mai nella storia della manifestazione gli atleti italici avevano raccolto tanto poco dalla strada, mai come stavolta si è realmente rischiato di tornare a casa umiliati e schiaffeggiati.
Proclami decoubertiani a parte, nello sport conta vincere e se non lo fai nella più importante gara di casa è lapalissiano che qualcosa non va. E se il Giro 2017 ha rappresentato la punta dell’iceberg di una crisi profonda, tale declino del nostro movimento si protrae da almeno un decennio a questa parte.
Nelle Classiche le vittorie sono ormai un’utopia (eccetto Nibali al Lombardia 2015, null’altro nell’ultimo decennio), ora anche nei Grandi Giri la situazione comincia a farsi preoccupante. Se analizziamo la classifica generale notiamo tre azzurri in top 10. Bene, diremmo. Peccato che due di questi, Vincenzo Nibali e Domenico Pozzovivo, pur avendo corso un Giro ad alti livelli, siano ormai ultratrentenni e poco altro hanno da offrire a questo sport. Il terzo è un diamante grezzo, Davide Formolo, e Fabio Aru a parte, resta l’unica arma del futuro.
E poi i successi parziali. Ci ha pensato il solito Vincenzo Nibali a togliere le castagne dal fuoco e trovare l’unico acuto: si è imposto nella frazione regina, lo Squalo, quella che da Rovetta ha condotto a Bormio dopo le scalate al Mortirolo e al doppio Stelvio. Ma fare affidamento sul siciliano della Bahrain-Merida significa ammettere che non abbiamo alternative.
Jakub Mareczko ha trovato due volte la strada sbarrata dal fenomeno Gaviria, Sacha Modolo ha corso una grande Campagna del Nord ed è arrivato svuotato nella corsa di casa, Valerio Conti e Giovanni Visconti ci hanno provato ma non è andata bene, Simone Petilli ed Edward Ravasi, così come altri giovani, crescono bene, ma assai più lentamente dei loro colleghi oltre confine. Davide Cassani sta coordinando intelligentemente l’intero settore nazionale partendo dai giovani, ma il gap con gli altri Paesi non è così semplice da colmare.
In una categoria vantiamo di essere ancora i numeri uno: quella dei gregari che rinforzano i grandi team internazionali e contribuiscono alle vittorie dei loro capitani. Pur vero che senza di loro nessun successo sarebbe colto, è altrettanto vero che poi negli albi d’oro ci finiscono gli altri, non coloro che fanno il lavoro sporco.
Altro che notte rosa… è notte nerissima! Il processo di globalizzazione del ciclismo e la partecipazione in massa di corridori di spicco provenienti dall’estero a fronte di due sole squadre italiane (più una, la UAE Team Emirates, che tale può essere considerata) può solo in parte costituire un alibi ad un movimento che non rappresenta più, inutile negarlo, un traino per l’intera disciplina.
Ormai non siamo che dei comprimari, ahinoi.